Rapido, mobile e poco costoso. Stiamo parlando del monitoraggio dei polmoni dei malati di Coronavirus che, utilizzando gli ultrasuoni, è sempre più accessibile e snello. Lo dimostra il progetto ICLUS (Italian Covid-19 Lung Ultrasound), nato a febbraio da ULTRa, il laboratorio dedicato agli ultrasuoni del Dipartimento di ingegneria e scienze dell’informazione dell’Università di Trento. Il suo obiettivo? Sviluppare un sistema automatico di diagnosi utilizzando anche l’intelligenza artificiale.
L’ultrasonografia polmonare: una tecnica difficile da usare
Gli ultrasuoni sono una tecnologia che tutti gli ospedali già utilizzano (sono la base delle ecografie) ma poco sfruttata per i polmoni in quanto, essendo pieni d’aria, restituiscono dei dati difficili da interpretare. Da qui l’idea di Libertario Demi, direttore di ULTRa e che l’ultrasonografia polmonare la studia di anni, di dare vita, in piena crisi sanitaria, a ICLUS. «Il progetto – spiega il professore - nasce anche grazie alla collaborazione di un gruppo di ospedali e ha l’obiettivo di fissare degli standard a livello internazionale. Abbiamo creato un protocollo, diffuso innanzitutto nella comunità scientifica, per guidare i medici nell’utilizzo di questa tecnologia applicata al monitoraggio dei malati di Coronavirus». Da New York a Tokyo, Da Nairobi e Roma, seguendo questi standard si riesce ora a impostare le macchine nel modo giusto e leggere correttamente i dati che riportano. «Non siamo ancora in grado di fare la diagnosi del virus – specifica Demi – ma possiamo monitorare lo stato di avanzamento dei suoi effetti sui polmoni dei malati».
Una tecnologia che conviene in tutti i sensi
Per fare una fotografia ai polmoni si usano soprattutto i raggi X, tecnica limitante, soprattutto in presenza di malattie infettive. Se si utilizza infatti una sala per fare un esame TAC a un paziente affetto da COVID-19, non la si può più usare per altro. Il malato deve inoltre spostarsi per farsi visitare, aumentando il rischio di contagio. Tutti questi problemi, con gli ultrasuoni, sono annullati. «Le apparecchiature che usiamo adesso – spiega Demi – sono delle sonde grandi come un telefono, che si collegano a un tablet. Possono essere portate ovunque, non solo nei reparti dei malati, ma addirittura a casa. Volendo si potrebbe fare il monitoraggio direttamente a domicilio». Anche il fattore economico non è secondario. «Non tutti gli ospedali hanno i soldi per una sala CT (computed tomography, ndr). Però potrebbero avere 6 mila euro, che è il costo approssimativo per l’attrezzatura a ultrasuoni».
L’importanza della rete
Adesso che i protocolli sono stati pubblicati nella comunità scientifica, le richieste di aiuto stanno arrivando da tutto il mondo. «India, Israele, Germania, Argentina, Olanda. Sono molti gli ospedali che al momento ci stanno chiedendo accesso a quella che è la nostra esperienza. Noi la mettiamo a disposizione, con l’idea che il contributo possa aiutare ad affinare queste tecniche e questi protocolli». Sono finora 60 mila le immagini di ecografie polmonari mandate all’Università di Trento dagli ospedali che stanno già utilizzando questa tecnica e che il laboratorio di Demi sta analizzando. L’obiettivo finale è quello di creare degli algoritmi che permettano a un software installato sul tablet di fare il monitoraggio, e auspicabilmente anche la diagnosi, in automatico.